Campioni e "figli di papà". Le spinte aiutano?
Il dibattito che si è aperto su Luca Marini, fratello di Valentino Rossi, ripropone un vecchio tema sempre attuale che, ovviamente, travalica lo sport e il motociclismo: essere “figli di papà” o essere “privilegiati” per ricchezza o conoscenze “giuste”, aiuta a “sfondare” o può trasformarsi in boomerang per la “pressione” e diventare addirittura un handicap?
Qui ci limitiamo al nostro “orticello”, il motociclismo, senza scomodare considerazioni di carattere sociologico, culturale, politico, ideologico. Chi è il pilota vero, il campione? Questa è la domanda. E questa è la risposta.
“Il pilota svolge una professione tremendamente seria: è permeata di rischi, comporta sacrifici, preparazione morale oltre che fisica, senza contare che tanta dedizione e tanta fatica, profusa senza risparmio, non sempre ottengono la giusta ricompensa. Conosco il modo di pensare dei piloti, le ansie, le gioie, gli scoramenti, la loro bruciante vita, fatta di lavoro, di ansimanti attese, di impegno, di aspirazioni inconfessabili per l’ascesa al successo.
E poi c’è la notorietà, eroico, terribile veleno, che bisogna saper assimilare con misurata saggezza. I piloti non si improvvisano, ma si formano affinando le loro doti naturali, fino a fonderle col mezzo meccanico, premessa fondamentale di ogni risultato. E’ un processo che costa tempo e denaro, molto rischioso, ma è l’unico valido per creare, dopo un serio tirocinio e una impietosa selezione, i grandi campioni”. Parole di uno che, di corse e di corridori, se ne intendeva: Enzo Ferrari.
Gli aiuti, i soldi, le amicizie che contano, le spinte, aiutano anche nel mondo delle corse. Ma si potrebbe citare tanti nomi a dimostrazione che tutto questo (soldi, amicizie, sostegni) non ha prodotto niente. Anzi, a volte, solo feroci delusioni e, purtroppo, anche incidenti e lutti. Come nella vita, la medaglia ha due facce.
I tre più grandi campioni del motociclismo sono Tazio Nuvolari, Mike Hailwood, Giacomo Agostini. Il primo era un garzone di bottega e diventò “Nivola” la leggenda per antonomasia delle due e delle quattro ruote. Il secondo era figlio di un miliardario di grande umanità (il commerciante ex pilota di bombardieri, Stan) e fu denominato “the bike”, che dice tutto. Il terzo, diciamo così, sta nel mezzo, figlio di un piccolo imprenditore di Lovere, diventò “Mino” per gli italiani e “Ago” per gli inglesi e i suoi 15 titoli mondiali resisteranno probabilmente a qualsiasi attacco.
Anche il fratello di Agostini, Felicino, tentò l’avventura delle corse. E lo fece quando Mino era un “potente”, il number one Yamaha nel motomondiale. Felice, buon manico, cavalcò le migliori 350 (ma non ufficiali) della Casa dei tre diapason, con il supporto di forti team e munifici sponsor. Non mancava nulla, ma i grandi risultati non arrivarono mai.
Così fu anche per Alberto Pagani, il figlio di Nello (campione del mondo nonché ds della Mv Agusta), che giunse fino a correre in squadra con Agostini, ma senza toccare i vertici.
Il padre di Renzo Pasolini era stato anche recordman mondiale, ma l’occhialuto riminese, per correre, dovette fare il collaudatore all’Aermacchi.
E John Surtees, da alcuni definito il più grande dei grandi, l’unico a vincere i mondiali in moto (sette!) e in Formula uno (con la Ferrari)? Garzone di bottega, per anni in sella a moto scalcinate, finchè al TT dell’Isola di Man non diede la paga alle MV Agusta quattro cilindri ufficiali con una Norton privat. E fu chiamato dal Conte a Cascina Costa.
La stragrande maggioranza dei piloti partì da zero: campioni del mondo come Umberto Masetti, Nello Pagani, Carlo Ubbiali (nove titoli), Tarquinio Provini, Libero Liberati e anche stranieri quali Geoff Duke, Gary Hocking, Jim Redman, Tom Phillis, Bil Ivy, Phil Read, Luigi Taveri, Angel Nieto (tredici titoli) dormivano nel paddok dentro il furgone fra moto, gomme e benzina.
Degli italiani del dopo Agostini, il “poker d’assi” Marco Lucchinelli, Virginio Ferrari, Graziano Rossi, Franco Unici, solo quest’ultimo era figlio di papà. Rossi “viveva” nel paddok dentro una 600 multipla e per iniziare a correre fece il barista sulle Dolomiti.
Barry Sheene stava un po’ meglio, ma Jonny Cecotto partì dal Venezuela con le pezze … Gli americani idem con patate, da Roberts senior, Mamola, Lawson, Spencer, tutti partiti da zero. Come gli australiani, da Findlay, Phillis, Carruthers, Gardner, Doohan e … Casey Stoner.
In Italia ci furono due-tre casi di figli (e figlie) di papà: ne nominiamo uno solo, il rampollo della dinastia Merloni, che però non raccolse allori e si fece pure male.
Chiudiamo con Valentino Rossi. Figlio di papà? Sì, di papà Graziano, ex ottimo funambolico pilota, conosciuto nell’ambiente (ma non sempre apprezzato), all’epoca sfortunato e squattrinato. Fino al primo mondiale Vale dormiva nel paddok in una camperino di seconda mano e tirava avanti con il contributo di pochi amici e piccoli sponsor.
I piloti non si dividono per “censo”. Ricchi o poveri, i piloti da sempre appartengono alla grande compagnia di ventura dei cavalieri del rischio: pronti a giocarsi la pelle per conquistare al tempo un decimo di secondo, per un brandello di gloria.
foto | Riders Blog