Viaggi: il Kenya a due ruote
Il moto-taxi è diventato il principale mezzo di trasporto in un paese in cui non esistono quasi mezzi pubblici. Per una corsa urbana la tariffa è di circa 30 centesimi di euro.
Tornare in Kenya dopo vent’anni riserva una grande sorpresa, che lascia stupefatti anche i viaggiatori normalmente “insensibili” alle due ruote: le città costiere, popolate da decenni da un chiassoso turismo europeo, sono letteralmente invase da moto. Malindi, enclave italiana nel continente nero, e Mombasa, metropoli pulsante e costellata di moschee, offrono allo sguardo strade affollate di motocicli, che trasportano ogni tipo di merce, oggetti ed esseri viventi. Taniche, ceste di ortaggi, gabbie di pollame, ma anche materiali edili, grappoli di bambini urlanti, donne velate, turisti bruciati dal sole: il Kenya è diventato un paese in moto perpetuo che si sveglia e si addormenta al rombante suono di piccoli monocilindrici di fabbricazione indiana e cinese. Bajaj e Handjin: questi i due marchi (se si escludono alcune sparute giapponesi) che al momento si stanno contendendo un mercato in espansione, ansioso di crescere e di occidentalizzarsi (perlomeno nei trasporti). Piccole cilindrate, 100, 125 centimetri cubici, poco costose e dai consumi ridotti, adatte in un paese dove uno stipendio di un impiegato si aggira sui 100 euro mensili e la benzina costa quasi 1 euro al litro.
Non molti possono permettersi di acquistare le moto, che in buona parte sono di proprietà di alcune compagnie locali che le danno in gestione agli autisti, i quali le utilizzano poi come taxi e per i servizi di trasporto più disparati, evitando buche grandi come crateri ed enormi tir carichi di sabbia o mattoni. Circa 30 centesimi di euro per una corsa urbana per un moto-taxi, 50 per farsi scarrozzare più comodamente a bordo di un “tuk-tuk”, le Ape Piaggio (o i motocarri Mahindra che iniziano ad imporsi) convertite a trasporto passeggeri. Tre persone più il conducente, ammoniscono gli avvisi sulle fiancate: talvolta capita di vederne anche otto, con quattro adulti pigiati davanti e altrettanti bambini sorridenti nel minuscolo cassone.
Un servizio che va a sostituire quello dei mezzi pubblici, praticamente inesistenti e a supplire la mancanza di auto, troppo costose per i locali. Chi proviene dall’Italia o dall’Europa in genere rimane affascinato dall’ingegno che autisti e proprietari esibiscono nelle customizzazioni e nell’utilizzo delle loro due (e tre) ruote: troviamo tuk tuk coperti da immagini di Valentino Rossi, altri con la livrea Ducati, oppure selle e serbatoi leopardati e zebrati. Li vedi arrivare ovunque (rigorosamente senza casco), in spiaggia a pochi passi dal mare, sui pontili, in mezzo a immani distese dove non si trova un benzinaio per decine e decine di chilometri. Talvolta, all’ombra di un baobab, si nota un’officina improvvisata, dove con scarsi attrezzi ci si affanna a risolvere un guasto o a sostituire un pezzo: esistono le officine ufficiali, ma qui l’arte di arrangiarsi è un motto nazionale.