Cassani, ennesima tragedia del motociclismo, ennesima occasione persa per gli “avvoltoi”
L’incidente di Misano che è costato la vita ad Emanuele Cassani ha riportato il motociclismo sulle prime pagine dei media, scatenando polemiche.
L’incidente di domenica scorsa sul circuito di Misano che è costato la vita al 25enne Emanuele Cassani ha riportato il motociclismo sulle prime pagine dei media, scatenando le trite e ritrite polemiche sulle corse e sulla loro pericolosità.
Al rispetto per un ragazzo che ha pagato con la vita la sua passione e al rispetto per il lutto di famigliari e amici la canea dei “soliti noti” ha pontificato dai salotti di casa su quel che si deve fare o non si deve fare, in una parola, l’abolizione delle corse.
E’ sempre stato così, dopo una tragedia, toccando il culmine nell’automobilismo in occasione della Mille Miglia del 12 maggio 1957 quando sul rettilineo della Goitese che congiunge Cerlongo a Guidizzolo verso Brescia lo scoppio di una gomma a 270 Kmh della Ferrari di Alfonso De Portago e del suo secondo Edmund Gumer Nelson causò la morte dei piloti e di 9 spettatori (tra cui 5 bambini): fu la fine della Mille Miglia e delle corse di velocità su strada, ci fu il rischio di chiusura per la Casa di Maranello, Enzo Ferrari fu trascinato in tribunale come … “assassino”.
Idem per il motociclismo, con la tragedia di Monza del 20 maggio quando al curvone perirono Renzo Pasolini e Jarno Saarinen e nello stesso punto, l’8 luglio, morirono Renato Galtrucco, Renato Colombini, Carlo Chionio. Si proibì Monza alle moto, così come dopo la tragedia del 4 aprile 1971 in cui sotto il diluvio di Riccione perse la vita Angelo Bergamonti, furono abolite le corse di moto sui circuiti cittadini. Altri incidenti, altre tragedie – prima e dopo – segneranno a lutto il mondo delle corse, falcidiando decine e decine di protagonisti, grandi campioni o semplici comprimari.
Emanuele Cassani, una vita di sacrifici per esaudire la sua passione, è morto proprio sul circuito intitolato a Marco Simoncelli, l’asso di Coriano scomparso nel 2011 a 24 anni in MotoGP a Sepang, in un incidente dalla stessa dinamica, travolto da altri piloti impossibilitati a schivarlo. Sempre a Misano, nel 2010, lo stesso tragico destino aveva ucciso in gara il giapponese Shoya Tomizawa, dopo l’impatto a fortissima velocità con le moto degli incolpevoli Redding e De Angelis. Nel 2013 stessa sorte per Andrea Antonelli 25 anni e Doriano Romboni 44. Antonelli, in gara a Mosca per il Mondiale Supersport, è finito tranciato dopo un volo spaventoso sulla pista allagata dalla pioggia. Romboni il 30 novembre 2013, dopo una carriera da professionista quel giorno sull’inadatto circuitino di Latina correva per onorare la memoria di Simoncelli al “Sic Supermoto Day”.
L’elenco, purtroppo, è ben più lungo e riguarda incidenti in molti circuiti del mondo, spesso poco noti, come spesso sconosciuti sono i piloti coinvolti. I rischi sono sostanzialmente gli stessi, sia per chi corre nello sfarzoso Luna Park della MotoGP, sia per chi si cimenta non da “professionista” in campionati nazionali o in quelli minori. E’ uno sport, è una passione, è l’amore per la moto, la competizione, la voglia di emergere. Peccato che ad Austin la MotoGP si è fatta scivolare sopra la tragedia di Misano: almeno gli italiani potevano salutare lo sfortunato Emanuele.
Ancora una volta si ripropone la stessa domanda: perché? Accade così, da sempre, rinfocolando vecchie e nuove polemiche che ripropongono gli interrogativi sulla sicurezza e sui rischi delle corse. E’ colpa di Misano? Il circuito romagnolo ha lavorato molto sulla sicurezza ed è, per questo, fra i migliori al mondo. Si può fare di più? Si deve.
Ma nelle corse il rischio non è eliminabile e anzi è una componente di questi sport: è uno degli ingredienti del suo fascino. Chi lo nega, mente sapendo di mentire. Si punta verso la ricerca della massima sicurezza, addirittura con l’obiettivo dell’annullamento del pericolo. Che, però, resta un’utopia. Eliminare completamente i pericoli delle corse è impossibile perché c’è l’imponderabile legato all’errore umano, alla rottura meccanica, al fato sfavorevole.
Ci ripetiamo: l’impegno per migliorare la sicurezza deve proseguire, essere permanente e totale da parte di tutti. Chi rischia sono soprattutto i piloti che non contano (quasi) nulla in tema di sicurezza anche perché non sono mai stati in grado di esprimersi con un forte livello di unità, quindi di credibilità: ognuno pensa a se stesso, al proprio tornaconto. Dare ad ex piloti i galloni di consulenti sulla sicurezza è spesso un modo per mettersi la coscienza a posto, quando non addirittura strumentalizzarli, dicendo di cambiare tutto per non cambiare niente.
Con altrettanta fermezza va ribadito che le corse non sono una corrida, i piloti non sono gladiatori, i mezzi non sono strumenti offensivi. Ma occorre equilibrio: la ricerca della massima sicurezza possibile non può portare allo snaturamento delle competizioni motoristiche, che erano, sono e resteranno “rischiose”.
Chiudiamo con quanto già scritto dopo la morte del Sic: va messa al bando ogni forma di ipocrisia e di strumentalizzazione. Perché, come ammoniva Enzo Ferrari: “O si smette di piangere o si smette di correre”.
Agli “avvoltoi” di turno, un solo invito: rispettare la scelta di vita di ognuno. Anche di un ragazzo che insegue i suoi sogni su una moto da corsa.