Morte in pista: no ai "corvi" anti-corse, no ai tabù sulla sicurezza
Si continua a morire in pista e anche stavolta, dopo questa nuova tragedia a Phillip Island, tornano vecchi e nuovi interrogativi e riesplodono vecchie e nuove polemiche sulle corse, la loro pericolosità, la loro legittimità a esistere o meno. Anche in questi momenti di dolore per la perdita del giovane Oscar McIntyre, ancora costernati per la orribile fine di Marco Simoncelli a Sepang, bisogna ragionare a mente fredda. Se in pista si continua a morire significa che ci si deve porre una domanda. Non se dalle corse si può eliminare il rischio, (lottando a oltre 300 all’ora su due ruote il rischio è ineliminabile), ma se si può fare ancora di più per la sicurezza.
Non c’è dubbio che sono stati fatti passi da gigante per gli spazi di fuga sui circuiti, per l’abbigliamento dei piloti e per la loro preparazione psicofisica, per gli assetti e la resistenza dei materiali delle moto, delle gomme, dei telai, degli impianti frenanti ecc. Chi non ha visto correre sui circuiti come il TT inglese, i vecchi Nurburgring, Bremgarten, Salzburgring, Spa, Abbazia ecc. non riesce a capire la differenza fra ieri e oggi. Per non parlare delle moto, con grippaggi dei motori, cambi e freni bloccati, pezzi staccati ecc. Ma la sicurezza riguarda anche le formule, i regolamenti, le cilindrate, l’elettronica ecc. Servono davvero nel WSBK e nella MotoGP motori di così alta cilindrata ed elevata potenza in grado di far correre le derivate di serie ben oltre 300Kmh (Biaggi-Aprilia ieri a Phillip Island a 323,7 kmh!) e i prototipi oltre i 350 kmh?
I grossi motori 4 tempi restano accesi anche dopo la moto a terra, con la enorme gomma posteriore che gira e spinge la moto in pista. Oppure l’elettronica, che da una parte aiuta il pilota nel … “limitarne” errori ed esagerazioni, ma dall’altro crea anche situazioni di ingovernabilità. Questo per dire che sulla sicurezza non c’è mai un traguardo acquisito e non ci si può mai cullare sugli allori. Va anche detto che anche oggi, sulla spinta dell’emotività e del dolore, si cerca di infierire, di lanciare anatemi, di chiedere la fine delle corse. Il refrain dei soliti “corvi” è sempre lo stesso: Non c’è più ragione di rischiare la vita in una gara di velocità, se non per alimentare lo show business delle corse, dal vivo o in tv, con relativo sfruttamento commerciale e pubblicitario.
La vita umana, ovviamente anche nelle corse, va sempre e comunque salvaguardata. Sulla sicurezza ci ripetiamo, non sottovalutando i grandi passi avanti ma non sottacendo i limiti di una organizzazione delle corse ancora sbilanciata nelle priorità, privilegiando la parte più esteriore dello show a danno della professionalità e della ricerca su un tema vitale per la stesa sopravvivenza del motociclismo. Perché è tabù affrontare di limitare le tecnologie esasperate? Serve, evidentemente, una coralità dell’impegno a tutti i livelli, con i piloti che devono far sentire di più la loro voce.
Si sa che i motori, la sfida, il rischio si fondono, esaltandoli, nel motociclismo. Ciò detto, non può restare senza risposta la domanda: perché si corre? Così scrivemmo dopo la morte di Simoncelli, dando la parola a Enzo Ferrari:
“Siamo nati con un’ansia di superamento e l’ambizione ci porta a tentare di primeggiare. La rivalità, anche crudele, è già agli inizi della vicenda umana: Caino e Abele e nel racconto dei miti, le fatiche immani che può sopportare Ercole o nelle favole dove c’è sempre una fanciulla che chiede allo specchio chi è la più bella del reame. Fin da piccoli incontriamo il più bravo della classe, quello che si arrampica meglio in palestra, quello che pattina con più eleganza. E dal primo contatto con gli altri emerge l’istinto del confronto, della emulazione”.
Sarà anche per questo che il motociclismo ha superato tutte le bufere e vive anche dopo 100 tragedie, senza mai rinunciare ad andare alla ricerca del tempo perduto, come nel libro di Proust.