Sepang, The Day After: salvate il soldato Vale

All'indomani del brutto episodio che ha negativamente caratterizzato il Gran Premio della Malesia facciamo il punto della situazione

Di Massimo Falcioni
Pubblicato il 26 ott 2015
Sepang, The Day After: salvate il soldato Vale

Al di là degli eccessi, la battaglia di Sepang fra Rossi e Marquez non solo ha dimostrato la fragilità delle amicizie fra campioni ma ha soprattutto tolto il velo sul motociclismo da reality-show. E’ inutile rinvangare il “fattaccio” di ieri fra l’italiano e lo spagnolo perché spaccando e rispaccando il capello ognuno rimane della propria opinione, a mo’ di fan di questo o quello, potendo solo prendere atto della sanzione dei giudici di gara, troppo pesante per alcuni e troppo leggera per altri.

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Negli ultimi anni (dall’era Dorna) il motociclismo ha avuto una straordinaria sovraesposizione mediatica: l’immagine e la cornice (con relativo gossip) hanno spesso surclassato i contenuti e la sostanza delle corse trovando in Valentino Rossi – grande campione in pista e grande imbonitore – l’essenza identitaria, l’assoluto mattatore, l’uomo giusto al momento giusto, sintesi del fuoriclasse show-man capace di ammaliare folle immense – dal biker alla nonna ai fornelli – convinte che il motociclismo fosse quello scanzonato del Dottore di Tavullia, fatto di coppe vinte, milioni a fiumi, gran sorrisi e gran pacche sulle spalle agli avversari, fino a che questi sono perdenti.

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Non è vero che in questo motociclismo taroccato e pompato dai media (televisivi) gli spettatori che fanno l’audience stanno con il perdente: non tifavano Biaggi, Gibernau, Barros ecc ma si identificavano con il vincente, con Rossi stratosferico e imbattibile ma acqua e sapone, quello che porta le famiglie (mamme, nonne e zie in testa) a spingere i nipotini sulle piste delle minimoto per inseguire la fortuna nelle corse, chè “tanto è facile”, come Vale dimostra. Il “Pensa se non ci avessi provato” di Rossi diventa il credo degli aspiranti campioni, la spinta per incominciare l’avventura delle corse, tutti “fenomeni” quando portano a casa la prima coppetta dal torneo sotto casa ma dando addio poi alle corse subito dopo la prima delusione.

La realtà è un’altra, fatta anche (purtroppo) di tragedie come quella di Marco Simoncelli (ma sono decine e decine i corridori che perdono la vita ogni anno sulle piste in giro per il mondo nei campionati sconosciuti), realtà fatta di grandi sacrifici per centinaia e centinaia di ragazzi (e relative famiglie che arrivano anche a indebitarsi fino al collo per esaudire l’ambizione/passione dei loro pargoli), realtà “dura” anche per gli arrivati, i super big della MotoGP, indubbiamente grandi campioni, costretti però, molto più che in passato, a recitare un copione dettato dalle esigenze dello show-business.

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E’ il mercato che decide e premia e punisce: da una parte ci sono piloti che diventano ricchissimi con le corse e dall’altra (spesso nel box accanto) ci sono piloti (la stragrande maggioranza) con la valigia, cioè corrono solo se portano (molti) soldi. Da ciò deriva tutto il resto. Fino al fattaccio di ieri. La passione è la molla iniziale per correre, questa passione alimenta tutta la carriera fino ai vertici della MotoGP, ma poi – a quei livelli – deve lasciare il posto ad altre esigenze, quelle legate al business, cui tutto va sacrificato. E’ sempre stato così? No perché il motociclismo era sport “povero”, sempre molto costoso e molto rischioso, ma i piloti del Circus del motomondiale erano “zingari” della moto, recuperando – i più – le spese e anche piloti come Agostini guadagnavano “quattro soldi” rispetto a oggi.

Ciò detto, sempre il motociclismo è vissuto di grandi battaglie in pista e anche con polemiche. Dita alzate, sguardi allusivi in staccata contro il vicino, gomitate, spinte e spintoni in curva, entrate alla “babbo morto”, ripicche e anche complotti hanno animato le corse, da quelle minori al motomondiale. Allora? La differenza è che, poi, nel box, si tornava al confronto e alla fine si finiva a tarallucci e vino, o quasi. I piloti ufficiali non avevano diritto di parola perché la Casa decideva su tutto. Con il Conte Domenico Agusta il “fattaccio” di ieri non sarebbe esistito, o meglio, avrebbe avuto come epilogo il licenziamento in tronco del suo o dei suoi piloti. E anche i piloti “privati”, dopo l’euforia eccessiva della corsa, alla fine venivano rabboniti da meccanici e da amici. Non come ieri, dove persone (note) dell’entourage di Rossi, si sono esibite in modo quanto meno irresponsabile, addirittura invadendo il box di Marquez e anche minacciando i suoi meccanici.

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Ci sono video che lo dimostrano. Le corse dei cavalli esistono perché ogni cavallo è diverso dall’altro e vuole primeggiare. Idem per le corse di moto. Ma adesso deve tornare a prevalere il senso della responsabilità, non per eliminare la lotta in pista che resta l’anima delle corse, ma per riaffermare i valori e l’identità (anche etica) del motociclismo nella logica cavalleresca della grande battaglia e del grande rispetto per l’avversario. I cosiddetti manager dei piloti, invece di interessarsi solo di soldi e di gonfiare le polemiche, dovrebbero esercitare anche un ruolo “pedagogico”, altrimenti diventano semplici ragionieri impegnati solo a gonfiare il proprio conto in banca o complici di questi fattacci e alla fin fine si trovano senza più le uova d’oro da dividere perché i galletti spariscono.

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E la FIM, invece di fare da soprammobile o la bella addormentata nel bosco godendo delle briciole passate dalla Dorna, dovrebbe esercitare almeno il ruolo di “sovrintendente”, facendo rispettare le regole (se ci sono), senza guardare in faccia nessuno. Ognuno, poi, faccia la sua corsa, a cominciare da Marquez che deve tirar dritto per la sua strada e da Rossi che deve smettere di vedere sempre fantasmi e non usare la propria esperienza per fini quanto meno discutibili. E Rossi non intacchi il suo prestigio di fuoriclasse minacciando il forfait dall’ultimo GP di Valencia. Un 9 volte campione del mondo deve dare esempi positivi non fuggire dal campo portandosi via la palla di gioco.

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