Il motociclismo dei “parassiti”, J’accuse di Paolo Simoncelli. E’ così, o peggio?

Paolo Simoncelli, papà del compianto SIC, ha lanciato un pesante atto d’accusa sull’ambiente delle corse: “Pieno di parassiti”

Di Massimo Falcioni
Pubblicato il 21 gen 2016
Il motociclismo dei “parassiti”, J’accuse di Paolo Simoncelli. E’ così, o peggio?

Nei giorni scorsi, Paolo, papà dell’indimenticabile Marco Simoncelli, ha lanciato un pesante atto d’accusa sull’ambiente delle corse: “Pieno di parassiti”. Chi è esattamente un parassita? E’ chi non produce (non solo prodotti o servizi) e vive alle spalle di un altro (non solo economicamente), cioè uno sfruttatore. Non è qui il caso di addentrarci in disquisizioni macroeconomiche o sociologiche. Un fatto è certo: il miele attira le api mentre le mosche sono attirate dagli (chiamiamoli così) escrementi.

A scanso di equivoci, partiamo proprio dal giro d’affari (non solo d’affetto) che si muove attorno al ricordo di Marco: la fondazione, il merchandising, i 58boys, i monumenti, il museo, la 58Forever società che detiene i diritti commerciali sui marchi ecc., volano (anche) da business, molto appetibile per i … “parassiti”, appunto, pur se la Fondazione Marco Simoncelli è una organizzazione di utilità sociale senza fini di lucro che sostiene progetti di solidarietà e cooperazione, controllata dallo Stato come tutti gli enti di questo tipo e soprattutto con a capo gente di provata serietà e onestà qual è Paolo Simoncelli. L’accusa di Simoncelli sui “parassiti” non è campata in aria anche se questo è solo l’iceberg di limiti e mali ancora più pesanti e profondi.

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Il motociclismo, da oltre un decennio, rappresenta per molti – per lo più persone completamente a digiuno di questo sport sotto ogni profilo e poco o nulla appassionate – una opportunità per fare soldi, per lavorare, per trovare notorietà, per dare sfogo al proprio ego cercando uno spazio sotto i riflettori… altrui. E’ così da quando girano molti soldi, a differenza di quando ai piloti andava una misera diaria e gli organizzatori avevano la tv o pagando o grazie agli appoggi politici.

Negli anni 50-60-70 trovare un amico che accompagnasse un pilota in circuito era un’impresa: grande fatica, nessun compenso, notti passate dentro l’auto, nel furgone o sotto la tenda, pane salame e un fiasco di vino da dividere, pura passione. E ognuno esercitava il proprio ruolo: il pilota faceva il pilota, il meccanico (o l’aspirante tale) faceva il meccanico-amico-consigliere, i genitori dei corridori stavano a casa.

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Oggi, nel motociclismo dello show-business, tutto è diverso (non solo nel motomondiale anche se il divario fra il motomondiale e altri campionati è abissale) con nuovi ruoli di alta specializzazione (ingegneri di vario tipo ecc.) e nuovi ruoli legati alle nuove esigenze, all’ immagine (le “ombrelline”, ma anche grafici, architetti, designer, fotografi, video operatori ecc.), alla comunicazione (Uffici stampa, PR), all’hospitality (autisti, cuochi, camerieri ecc.), all’organizzazione, alla logistica, ai servizi sanitari ecc. nonché gente di vecchio e nuovo conio con l’etichetta del manager e/o del consulente (de che?), spesso di altra provenienza rispetto al motociclismo o di nessuna esperienza.

Nel paddock e nel box c’è tanta gente di grande passione, professionalità, esperienza, umiltà. E ce n’è altrettanta di passione pari a zero, di nessuna professionalità specifica, nessuna esperienza, nessuna umiltà. In troppi si attaccano come sanguisughe per un cappellino, un pasto, un selfie, un posto di lavoro. Troppi, in modo quasi automatico, saltano all’interno da un lavoro all’altro: l’ex pilota diventa talent scout, il meccanico team manager, l’ombrellina procace PR o addetta stampa senza aver mai scritto due righe in vita sua, mamma e papà del rampollo-pilota definito improvvidamente e con troppa fretta “fenomeno” diventano esperti di motociclismo senza aver mai messo piede prima su un circuito e si parli di Surtees pensano a un… insetticida. Per non parlare dei munifici e invadentissimi sponsor, con un codazzo vociante nel pigiapigia di un box dedicato fra tramezzini e champagne in attesa solo della MotoGP (nello schermo) perché le altre gare fanno solo rumore. Ovvio che ci sono le eccezioni ma confermano solo la regola.

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Vige l’emulazione. Per tutti l’esempio è uno solo: Valentino Rossi, fuoriclasse, quasi invincibile e integro (a dimostrazione che le corse non sono poi così difficili e così rischiose…), plurimilionario in dollari, star internazionale riverito e ammirato da milioni di fan, clan adeguato con tutti gli annessi e connessi. Insomma, il motociclismo come una terra promessa, quasi un paradiso in terra. Come evitare, in siffatta nuova realtà apparentemente colma di bendidio ai vertici (MotoGP) e austera fino alla indigenza alla base, l’inserirsi dei vecchi e nuovi “parassiti”? Ma lo sport, il motociclismo fanno parte della società.

E in una società (parzialmente?) “malata” – non solo di corruzione, anche se il 97% degli italiani considera la corruzione il primo male e un fenomeno dilagante – c’è uno sport tutt’altro che in buona salute, fuori dalla purezza, dalla sportività, dalla correttezza e il motociclismo italiano e internazionale non può essere e non è un’isola felice, con forti anticorpi capaci di respingere l’assalto di malattie più o meno gravi.

Il nodo centrale è rappresentato dagli interessi economici: il business, anche nel motociclismo, è diventato la base su cui ruota lo sport-spettacolo e, conseguentemente, sono i soldi a dettar legge, spesso fuori dalla logica del merito, di fatto ostacolando la scala dei reali valori in campo. Dal giro di soldi che uno sport riesce a creare e a muovere si distribuiscono i compensi per tutti quelli che di sport vivono. Anche se in mancanza di regole precise (o raggirando le regole quando ci sono, per non parlare delle mafie, delle scommesse clandestine ecc.) il mercato subisce condizionamenti e spesso viene stravolto a benefici dei pochi soliti noti e a danno dei più.

Non è questa la sede per una disamina sui tanti (troppi?) dossier aperti dalle varie procure a carico di esponenti che governano lo sport (non solo italiani) e anche di atleti (non solo italiani) di varie discipline, a iniziare dal calcio. Il motociclismo – come già sopra scritto – è da oltre un decennio dominato dalla logica dello show-business, con limiti e distorsioni evidenti ma – per fortuna – ben lontano dalle nefandezze e dai punti gravi di non ritorno di altri sport.

I “parassiti” a cui si riferisce Paolo Simoncelli – nell’intervista rilasciata a GPone – sono presenti come il bruco nella mela la cui pianta oggi distribuisce frutti copiosi grazie ai proventi dei diritti televisivi mondiali. Quando queste entrate finanziarie mancano – vedi campionati nazionali o minori – le luminarie si affievoliscono con l’avvento dei piloti della valigia, con le moto raffazzonate, con i “parassiti” che proliferano in proporzione a come scompaiono gli sportivi sugli spalti. Può reggere un sistema siffatto, con queste basi?

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