MotoGP, 6 grandi Case in campo. Quando gli italiani…
Sei grandi Case in campo nei Test MotoGP 2017 di Sepang. Quando gli italiani … lasciarono campo libero al Sol Levante
Test MotoGP Sepang 2017 – La tre giorni di test ufficiali della MotoGP che si apre da lunedì 30 gennaio in Malesia è una prelibata anticipazione della attesissima stagione 2017. Fra i tanti motivi di interesse ce n’è uno che permette anche un rapporto fra presente e passato in riferimento alle grandi Case impegnate ufficialmente nel Mondiale. Infatti, nel 2017, sono ben 6 i costruttori ufficialmente in pista nella premier class, un dato già di per sé significativo ma che va oltre il semplice elemento numerico, riflesso della realtà del motociclismo di oggi. Come noto, le 6 Case presenti in MotoGP sono Honda, Yamaha, Suzuki, Ducati, Aprilia e l’entrante KTM.
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Quindi Giappone schierato con i suoi colossi industriali cui si contrappone l’Europa, con l’Italia in testa con Ducati-Audi e Aprilia-Piaggio, e con l’Austria che con Ktm rilancia le mire… “imperiali” del tempo che fu. Torneremo sui motivi tecnico-agonistici della stagione, qui affrontiamo considerazioni forse utili a capire l’aria che tira anche rispetto a epoche precedenti del nostro sport e dell’industria che lo sosteneva. La prima considerazione è questa: oggi il Motomondiale, sport show-business di livello planetario incentrato sulla comunicazione, ruota attorno alla MotoGP, pensata e promossa per “rappresentare” il motociclismo racing al pari della F1 automobilistica. Ogni Team presente in MotoGP è sostenuto economicamente da grandi sponsor (non mecenati ma aziende cui interessa la ricaduta pubblicitaria delle corse) e divide con il promotore del Motomondiale (Dorna) la grande torta finanziaria derivante soprattutto dai diritti televisivi, legati all’audience.
Senza questi due supporti oggi il Motomondiale così com’ è non esisterebbe. Per i primi tre decenni le Case – spolpandosi – finanziavano direttamente le corse pagando tutto di tasca propria, persino la benzina… Una rivoluzione concettuale perché il Motomondiale nacque nel 1949 con cinque cilindrate (125, 250, 350, 500 più side) cui si aggiungeranno in seguito le classi 50 e 80. Ciò non solo per esigenze di spettacolo offrendo agli spettatori presenti nei circuiti una giornata “piena” ma perché le moto di serie più vendute erano di piccolissima e piccola cilindrata con pochi privilegiati acquirenti delle mezzo litro, per altro vetuste e superate per prestazioni e stile dalle moto più piccole oltre che dall’exploit dello scooter Vespa.
Ragion per cui le Case curavano particolarmente le piccole-medie cilindrate (specie 125 e 250) con modelli via via sempre più raffinati non disdegnando (anzi!) le grosse cilindrate (in primis la 500) presto diventata l’emblema per ogni grande costruttore. Nel primo gruppo – quello fino alla 250 cc. – si possono annoverare la tedesca Nsu poi la Mz (entrambe due tempi aspirate e in seguito a disco rotante) e le italiane Mondial, Ducati, Garelli, Morini, Benelli, Mv Agusta in seguito Morbidelli, Minarelli, Mba, Aprilia quindi le spagnole Bultaco, Derby, Ossa e dal 1959 Honda e in scia Yamaha e Suzuki. Nel secondo gruppo, incentrato sulla “mezzo litro”, oltre a Norton, Ajs, Velocette, Dkw, Bmw, erano le moto italiane – specie fino al forfait di fine 1957 – a farla da padrone con Guzzi, Gilera, Mv Agusta, poi con sprazzi di grande valore tecnico e agonistico ma di modesto costrutto sul piano del palmares iridato dovuti a Bianchi, Benelli su su fino ai tentativi fra alti e bassi di Cagiva, Aprilia, quindi Ducati, ma qui siamo già nella cronaca.
Gli industriali italiani del motociclismo de: I giorni del coraggio”, alcuni dei quali impegnati nelle grandi corse già fra le due guerre mondiali, sono stati i principali artefici della “civiltà del motore” ma, a differenza dei costruttori giapponesi, non hanno compreso appieno il valore delle corse come veicolo promozionale capace di sfondare nei mercati mondiali. Il “miracolo economico” con l’avvento della 600 e della 500 Fiat acquistata a rate anche dagli operai e dai ceti medi non fu colto dall’industria motociclistica come segnale per innovarsi sul piano tecnico e su quello del marketing rilanciandosi, ma come “campane a morte” della motocicletta e quindi delle corse. Fu così, al di là delle “scuse”, che a fine 1957 Guzzi, Gilera, Mondial – dopo un dominio assoluto – diedero addio alle corse e non bastarono i contributi pur eccelsi di Mv Agusta, Benelli, Morini, Bianchi ecc. – a cavallo degli anni ’60 – a fermare l’invasione gialla. Qualche esempio?
La Mv Agusta costruiva bolidi eccelsi in tutte le 4 cilindrate classiche (fino al 1960 quando ancora i giapponesi erano a bocca asciutta la Casa di Cascina Costa aveva raccolto 2644 vittorie, 36 campionati del Mondo, 19 Tourist Trophy, 14 campionati italiani) ma senza pari riscontri sulle moto di serie il cui mercato poco interessava alla Casa varesina impegnata sui ben più remunerativi elicotteri. La Benelli, già attiva agonisticamente sin dai primi anni ’20, sbarcò nel 1959 con Silvio Grassetti in Argentina dominando tutte le corse dell’epoca ma a Pesaro pensarono che quel mercato … non fosse poi così… appetibile. Idem la Morini, negli Usa nel 1964, sempre con Silvio Grassetti che sulla 250 monocilindrica bialbero 4 tempi già di Provini e di Agostini colse nell’apertura mondiale di Daytona un magnifico terzo posto dietro a Read e a Duff sulle Yamaha 4 cilindri 2 tempi e davanti alle Suzuki 4 cilindri 2 tempi trionfando poi la settimana dopo a Sebring.
Si offrirono importatori per distribuire le moto di serie bolognesi negli States ma il Comm. Alfonfo pensava solo al mercato italiano. Non solo. Anche per regolamenti “senza limiti” l’industria italiana si avventurò in ardite e costosissime realizzazioni di moto Grand Prix, dissanguandosi economicamente: basti pensare alla Guzzi 500 8 cilindri e al progetto Benelli 250 8 cilindri! Esempi per capire poi perché la storia prese la piega che prese e perché l’ascesa nipponica fu fulgorante quanto inarrestabile, senza più avversari adeguati. Fu per primo Mr Honda (copiando e poi migliorando la tecnica italiana) a dare risonanza alle imprese sportive per appoggiare la propaganda delle vendite per la promozione di moto di serie.
Si possono aggiungere tanti “se” e tanti “ma”, questa è stata la realtà che ha portata all’oggi. Non c’è niente da rimpiangere e poco conta volgere indietro lo sguardo se non come monito o, almeno, come lezione. L’industria italiana, con Ducati e Aprilia, e quella europea (con Ktm aspettando Bmw) ha le carte in regola (sul piano tecnico, tecnologico, anche economico e del management) per misurarsi alla pari con i colossi del Sol Levante. Non resta che aspettare fiduciosi.