Sicurezza, circuiti permanenti o stradali? La lezione della tragedia di Riccione del 4 aprile 1971
Con l’incidente mortale di Angelo Bergamonti si chiuse, per divieto legislativo, l’era ultra decennale dei circuiti cittadini.
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Con l’incidente mortale di Angelo Bergamonti avvenuto sotto l’imperversare del maltempo nella corsa delle 350 a Riccione il 4 aprile 1971 si chiuse, per divieto legislativo, l’era ultra decennale dei circuiti cittadini. A dire il vero non fu proprio così perché nel classico modus vivendi all’italiana ci furono diverse interpretazioni di quel divieto.
Cosa accadde nella realtà dopo quel fatidico 4 aprile 1971? Che nel motociclismo nostrano tutto pareva procedere come prima, o quasi. Già da almeno un anno prima nella riviera romagnola, in funzione di promozione del territorio, c’era chi pensava – un manipolo di imprenditori privati e di amministratori locali – alla realizzazione di un autodromo permanente. Detto e fatto. La tragedia di Bergamonti e le code polemiche, i divieti, l’intervento della magistratura che aveva incriminato gli organizzatori del circuito di Riccione, spinsero quell’idea che si materializzò in fretta, di lì a poco, nel 1971, con un circuito spoglio ma permanente in zona Santa Monica a Misano Monte a un tiro di schioppo dal mare fra Riccione e Cattolica, tant’è che nel 1972 si disputò la prima gara, organizzata proprio dal MC Riccione.
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I romagnoli non erano soli. Anche in Toscana c’era gran movimento per riportare il Mugello ai fasti antichi costruendo un impianto permanente che di fatto, nella sua struttura di base, fu realizzato nel 1972, inaugurato due anni dopo, inserito poi nel Motomondiale il 16 maggio 1976 quando ci furono oltre 70 cadute nel we e avvenne il doppio incidente mortale dove perirono Otello Buscherini nella 250 e Paolo Tordi nella 350 finiti contro i pali di sostegno delle reti poste a ridosso della pista, mancando nelle curve dell’Arrabbiata e della Biondetti gli spazi di fuga.
C’era dunque la corsa agli autodromi permanenti, ma non senza stop and go e non senza ritorni al passato. Ad esempio si pensava di ripetere quanto fatto nel 1967 a Zingonia, la nuova zona industriale nei pressi di Bergamo, dove Agostini, Pasolini, Grassetti, Bergamonti, Villa, Pagani, Milani ecc. corsero su un tracciato non permanente ma non proprio… cittadino, essendo in aperta periferia dove stavano sorgendo fabbriche come funghi.
Fu la scoperta dell’uovo di Colombo, l’invenzione dei circuiti “extra-cittadini” rimodulata dai pesaresi del Moto Club T. Benelli inventando corse che passeranno alla storia, nel 1971 e nel 1972 a Villa Fastiggi e poi nel 1978 in zona industriale a Chiusa di Ginestreto: circuiti spettacolari quanto rischiosi ma con la clemenza della dea bendata. Sarà comunque il canto del cigno delle cosiddette corse su strada che proprio nel 1972 avevano tentato un rilancio, invano. Rimini e Cesenatico, proprio a poche ore dalle loro gare e dopo aver speso montagne di soldi, non ricevettero dalle autorità competenti il nulla osta facendo saltare tutto, con la costernazione degli organizzatori, il disappunto dei piloti e della Case, la delusione dei tifosi, molti dei quali già in zona. Nessuno sapeva esattamente perché e chi doveva rispondere non rispondeva.
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Il motociclismo – quel motociclismo – era sotto tiro e niente e nessuno l’avrebbe potuto risollevare. L’alternativa erano gli autodromi permanenti anche se con la doppia tragedia di Monza (il 20 maggio 1973 con la morte di Pasolini e Saarinen e poche settimane dopo con la morte sullo stesso curvone di Galtrucco, Colombini, Chionio), frutto della insipienza e della arroganza di chi dirigeva, tutto sembrava di nuovo in discussione, con le corse nel mirino e con la richiesta dei soliti noti di abolirle definitivamente. Non fu così, grazie anche alla rivisitazione quasi totale dei circuiti, con il tema sicurezza posto, pur non senza contraddizioni e limiti, al centro dell’attenzione. Da anni la polemica sui circuiti/sicurezza si riapre dopo le vicende – spesso con l’epilogo di incidenti mortali – legate al TT dell’Isola di Man.
Ha indubbiamente destato stupore una recente dichiarazione del sempre vulcanico Carmelo Ezpeleta, CEO della Dorna (promoter del Motomondiale-MotoGP, del WSBK e del CEV) sulla possibilità di riportare in tempi relativamente brevi una gara del Motomondiale su un circuito cittadino. Un tracciato non certo come il TT inglese (250 morti!) o quello suicida di Macau e anche ben lontano dai mitici e iper pericolosi modello Spa-Franchorchamps, ma forse proprio sulla falsariga dei circuiti della Mototemporada emiliano-romagnola, un incrocio fra quelli iper cittadini di Cesenatico, Cervia, Rimini, Riccione e quello bergamasco di Zingonia e quelli pesaresi “fuori città” di Villa Fastiggi e zona Chiusa di Ginestreto.
Se son rose fioriranno. Per la sicurezza si è fatto molto ma non basta. Si può fare di più? Si deve. Ma si deve intervenire anche dall’”esterno”. Quando si arriva al punto che se cadi ti fai davvero (sempre) molto male con conseguenze gravissime per non dire mortali ci vuole una autorità “terza” istituzionale – anche fuori dal motociclismo – che dica “No” ponendo la parola fine. Punto. Così come avvenne, magari fin troppo avventatamente, dopo quel maledetto giorno del 4 aprile 1971 a Riccione. La sicurezza non è una questione risolta una volta per tutte. Ci vuole coraggio per tenere aperto un tema scomodo, la vera spada di Damocle del motociclismo. Solo così si possono limitare le conseguenze delle cadute, inevitabili, e si possono rispettare e onorare – non con i sermoni – Angelo Bergamonti e i tanti (troppi!) piloti che, prima e dopo di lui, ci hanno lasciato.
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