Campioni senza "corona": Renzo Pasolini, l'antidivo
Campioni senza "corona": Renzo Pasolini, l'antidivo
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La vicenda umana e sportiva di Renzo Pasolini termina quel 20 maggio 1973, quando alle 15,31 di una calda giornata primaverile sull’autodromo di Monza scende la cappa della tragedia e una grande festa si trasforma in una terribile tragedia. In un sol colpo, in un attimo, causa una spaventosa caduta dopo la partenza, alla “curva grande”, il motociclismo precipita nel dramma, perdendo Renzo Pasolini (35 anni) e Jarno Saarinen (28 anni), due fra i piloti più forti e amati di tutti i tempi. Così, nel modo più brutale, Pasolini esce dalle cronache e passa alla storia, superando i confini del motociclismo e dello sport.
Nato il 18 luglio 1938, sposato e con due figli, l’occhialuto campione riminese dai lunghi capelli scompigliati, figlio d’arte (papà Massimo fu anche recordman mondiale con l’Aermacchi), ex pugile ed ex motocrossista di livello, dal 1964, in 10 anni di carriera fra i seniores, era diventato uno dei protagonisti assoluti del motociclismo, l’antagonista di Giacomo Agostini. Il destino, si sa, fa e disfa e in questo caso segna nell’albo d’oro 15 titoli iridati per l’asso di Lovere e neppure uno per il romagnolo, per un punto vice campione del mondo 1972 nella 250 (tre vittorie, quattro secondi e un terzo posto) con l’Aermacchi 2 T bicilindrica, proprio dietro a Saarinen con la inedita Yamaha raffreddata ad acqua.
Chi, come l’estensore di queste note, ha seguito da vicino quella fase affascinante e travagliata delle corse, non può avere dubbi sulle qualità tecnico-agonistiche (oltre che umane) di Renzo, campione a tutto tondo, umile e rispettoso fuori dalle piste quanto irruento e indomabile in corsa, capace di inventarsi una staccata impossibile all’ultima curva per andare a vincere una gara già persa. I titoli iridati contano e pesano, ma in questo caso, se da una parte dimostrano la statura di un fuoriclasse come Agostini, dall’altra non collocano Pasolini dove dovrebbe stare, cioè nell’olimpo dei grandi di questo sport.
Per almeno 8 anni, dal 1966 al 1973, i duelli fra Ago e Paso danno lustro al motociclismo in Italia (epici i duelli della Mototemporada) e nel mondo, dividendo le tifoserie, esaltando le folle. Pasolini batte Agostini 18 volte e Mino batte Renzo 46 volte, ma i numeri non sono in grado di esprimere il valore di quella rivalità e di quei grandi confronti. Guascone, divo da copertina, scientifico anche nella preparazione, dalla guida pulita, passo martellante, freddo e senza (quasi) mai sbagliare un colpo, straordinariamente efficace sui tracciati misto-veloci: Agostini.
Schivo e antidivo, fumatore e disponibile al rapporto con i suoi fans fino a fare le ore piccole in loro compagnia, guida istintiva da improvvisatore, inventore dello stile col sedere fuori e “alla Nuvolari” – usando cioè acceleratore e freni come clave – insuperabile in staccata e sui tracciati cittadini, indubbiamente pilota più di cuore che di testa, poco calcolatore, dedito al corpo a corpo alla baionetta, capace di qualsiasi exploit, errori compresi: Pasolini.
L’epopea del Paso è soprattutto quella in sella alle Benelli 4 cilindri, prima sostituendo l’infortunato Tarquinio Provini nella 250, poi portando al debutto due straordinari gioielli quali le 4 cilindri pesaresi 350 e la 500 con cui vince contro Agostini (MV Agusta) la corsa di chiusura della stagione 1966 a Vallelunga e la corsa di apertura 1967 a Modena. Con la 350 fa cose mirabili e con la 250 perde solo per sfortuna il titolo iridato andato al compagno di squadra Carruthers.
Qui non si vuole fare l’elenco di gare e campionati vinti e perduti, ma solamente un flash su Pasolini pilota e uomo indimenticabile, vivo nel cuore di tanti sportivi. Voleva vincere il mondiale e non mollava. Poi Monza. Così scrivemmo in un precedente pezzo su Motoblog: Renzo, l’antidivo dal sorriso mesto sotto gli occhialoni da tartaruga e Jarno, funambolo sul ghiaccio, ingegnere meccanico e titolare di una azienda di pompe funebri a Turku, il più forte pilota degli anni ’70, se ne andavano così. Per amore di quel motociclismo che divorava i suoi figli migliori. Per l’insipienza e l’arroganza di chi quello sport dirigeva.