Macau Grand Prix, corsa vera o “roulette russa”?
Definire mitica questa corsa sul serpente cittadino “Da Guia” incentrata sulle auto (Formula3, WTCR, GT) è un eufemismo...
La buona notizia della 65esima edizione (la 52esima per le moto) del Macau Grand Prix che si corre sabato 17 novembre è che nessun pilota italiano sarà al via di questa corsa-corrida nella Las Vegas cinese. Definire mitica questa corsa sul serpente cittadino “Da Guia” incentrata sulle auto (Formula3, WTCR, GT) è un eufemismo. Nella storia, si sa, ci sono stati e ci sono miti positivi e miti negativi. D’altronde tutto è storico e tutto è storia, compresi i fatti e i personaggi più spregevoli di sempre. Leggenda? Per molti lo è anche Al Capone. Per non dire peggio.
Questa cosiddetta gara-mito non porta alcun valore aggiunto al motociclismo né sul piano tecnico (si corre con Honda RC213V-S, Bmw S1000RR, Ducati Panigale R, Yamaha R1, Kawa. l’unica “perla” è la Panigale V4 con Steve Heneghan, debutto tecnicamente poco significativo, date le caratteristiche del tracciato-budello) né su quello agonistico (i 28 selezionati piloti sono fra i big delle cosiddette “road racing”, oltre tutto perfetti sconosciuti da queste parti e non solo, al via per il ricco monte premi).
La corsa di moto, qui, è un “contorno”, un luccichino per allodole, uno strumento più rischioso di tanti altri per attirare pubblico e produrre audience tv, ben più remunerativo di quando nei circhi c’era il “giro della morte” dell’otto volante. E’ un riempitivo di un luna park-baraonda, tant’è che la gara (12 giri) si disputa sabato alle 9 di mattino, con qualifiche il venerdì alle 7,30 del mattino, sui 6 Km di un tracciato infilato fra “Armco barriers” gialle e nere, muretti, reti e ostacoli di ogni tipo girando sui 150 Kmh di media con punte da 280 Kmh su moto da oltre 220 cavalli.
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Una “roulette russa” rombante. Qui chi sbaglia paga. Un errore costa caro, anche la vita. Inutile fare l’elenco degli incidenti e dei lutti: nel 2017 la corsa finì al quinto giro cancellata dopo il terribile schianto mortale contro le barriere dell’inglese Daniel Hegarty. La gente, ammassata dietro a reti da … Sing Sing, si eccita: come alla corrida, come al combattimento dei galli, come nelle mille diavolerie che da queste parti (chi è stato in alcune zone della vicina Hong Kong sa…) si inventano per passare il tempo e soprattutto per sbarcare il lunario, fare fortuna alimentando un giro di scommesse, manna per la malavita locale e non solo.
Qui tutto è possibile perché di clandestino c’è poco essendo tutto… clandestino e ognuno si fa la propria regola, quella del tornaconto personale. Nessuno, in un Paese civile, consentirebbe una gara motoristica su un tracciato del genere dove la sicurezza non è un optional perché qui l’eccezione è uscirne integri come si era arrivati. L’appeal della corsa è, appunto, legata alla sua insicurezza, alla sua pericolosità eretta a totem, alla possibilità di “non” sbattere contro le barriere, non il contrario.
Lo stesso TT dell’Isola di Man è cosa diversa – non solo sul piano storico-culturale e tecnico – così come erano diverse le gare italiane sui circuiti cittadini fino ai primi anni ’70. Inutile riaprire confronti e alimentare vecchie e nuove polemiche. C’è a chi piace tutto ciò? O si ignora la realtà o si è complici.
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