Il “Paso”, quel beffardo “scherzo” della signora in nero

Per oltre un lustro, dal 1967 al funesto maggio monzese, il “Paso” – precursore della guida moderna con il corpo “fuori” dalla moto - animò le corse in Italia e nel mondo, chiamando sui circuiti della Mototemporada e del Motomondiale folle immense con i titoloni sui grandi media e le interviste sulle tv.

Di Massimo Falcioni
Pubblicato il 14 dic 2018
Il “Paso”, quel beffardo “scherzo” della signora in nero

Nell’alto dei cieli, dietro ai suoi occhiali con le lenti spesse come fondi di bottiglia, vedendo il busto a lui dedicato scoperto nella sua Rimini sabato 15 dicembre, Renzo Pasolini accennerà a un sorriso mesto, ironizzando: “Cus ch’l’è?”. Su Motoblog c’è già un pezzo sull’inaugurazione del monumento per Renzo Pasolini, il corridore di “cappa e spada” leggendario campione di motociclismo che a 80 anni dalla nascita e a 45 anni dalla tragedia di Monza resta nel cuore degli appassionati di tutto il mondo, per tanti il simbolo imperituro del “mutor”.

Negli anni ’60 – siamo subito dopo l’era del motociclismo “eroico” terminato nel 1957 e nel fulcro del motociclismo de “I giorni del coraggio” – si iniziava tardi a intraprendere la carriera del corridore, anche perché si diventava “maggiorenni” a 21 anni. Renzo aveva già 24 anni quando si cimentò per la prima volta sui circuiti di velocità (dopo le precedenti brillanti esperienze agonistiche nel motocross e nel … pugilato) nel “tricolore” cadetti e juniores con le arancioni Aermacchi 250 monociclindriche 4 tempi aste e bilancieri, in un’epoca dove dalle sette alle otto di mattina si disputavano le affollatissime e concitate batterie eliminatorie forti di almeno 70-80 piloti per ogni categoria e alle 9 partivano le finali delle 125, 175, 250.

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Io allora avevo 12 anni e Renzo diventò subito il mio mito della “seconda categoria” per come s’arrabattava – sigaretta appiccicata alle labbra, imbronciato ma non disdegnando un sorriso di saluto per i suoi primi fan – nella messa a punto del suo mezzo e per come poi in corsa recuperava tante posizioni, a zig zag, dopo brutte partenze, sfoderando quella che sarebbe stata poi anche fra i “big” la sua arma migliore: la staccata.

Al pari di una fiocinata nel segno dell’arrembaggio: “o la va o spacca”. Così l’ex crossista boxeur romagnolo diventò subito un incubo per i suoi avversari. All’opposto, quella guida all’arma bianca, diventerà anche – non di rado – un azzardo per il riminese che finiva lungo o anche a gambe all’aria. Quante corse perdute per eccesso di irruenza! Qualche volta, è vero, Renzo, per la propria indole di “guerriero” d’assalto con la baionetta e il colpo in canna, esagerava, ma in realtà andare oltre il limite era per lui una necessità imposta dalle moto che guidava, competitive sì, ma sempre un pelino sotto a quelle dei suoi principali avversari, in primis quelle di Agostini.

Quante volte si udiva papà Massimo (ex valente pilota ed ex recordman mondiale) gridargli: “Sumar d’un esan”! Quella frase Renzo se la sentì ripetere dal papà, sempre amorevolmente vicino con i suoi consigli e i suoi moniti, anche più tardi, quando oramai era un cavallo di razza, ai vertici del Mondiale, big fra i big, l’anti Agostini. Per oltre un lustro, dal 1967 al funesto maggio monzese, il “Paso” – precursore della guida moderna con il corpo “fuori” dalla moto – animò le corse in Italia e nel mondo, chiamando sui circuiti della Mototemporada e del Motomondiale folle immense con i titoloni sui grandi media e le interviste sulle tv.

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Ago il divo, Paso l’antidivo. Il duello omerico fra Achille ed Ettore sotto le mura di Troia – un duello già deciso dagli … dei – che si ripeteva in ogni corsa in una meravigliosa avvincente rombante spirale di passione che resta nel cuore di tutti quelli che l’abbiamo vissuta come fossimo noi in sella ai bolidi e non semplicemente spettatori assiepati sui vialoni dei circuiti rivieraschi romagnoli o aggrappati sulle piante della foresta di Spa, nelle Ardenne.

Non posso dimenticare, altresì, il “Paso” extra-corse, ad esempio quando periodicamente – specie fuori stagione – si allenava sul campo di motocross della Vallugola (nello splendido scenario paesaggistico del colle San Bartolo fra Pesaro e Gabicce), tirando fuori gli artigli dell’ex crossista fino a “distruggere” la Motobì/Benelli preparata ad hoc dal reparto esperienze della Casa pesarese. Dopo ore massacranti di allenamento, Renzo accennava a un sorriso di compiacimento per l’ennesima moto messa ko, aspettava sudato che da Pesaro arrivasse il “van” per prelevare i resti della monocilindrica con le gomme artigliate.

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Erano momenti magici per chi come me gli si metteva attorno e lui, una sigaretta dopo l’altra, si sorbiva il tam tam delle domande di ogni tipo, rispondendo come uno … scolaro disciplinato. Quella caratteristica della disponibilità nei confronti di chiunque, vero e proprio status di “umiltà” di chi si era fatto da solo, Renzo manterrà sempre, anche da pilota affermato nel mondo, anche nei momenti più difficili e impegnativi, anche prima di una partenza di una gara mondiale, anche dopo l’ennesimo trionfo.

Nato a Rimini il 18 luglio 1938, felicemente sposato e con due figli d’oro, l’occhialuto (dalla visiera gialla) campione romagnolo dai lunghi capelli corvini scompigliati, con la sigaretta in bocca, – come già scritto – figlio d’arte, ex pugile ed ex motocrossista di livello, dal 1964, in 10 anni di carriera fra i seniores, era diventato il trascinatore di folle capace di rinviare il trionfo alla gara successiva, quando meglio non si poteva fare.

Chi, come l’estensore di queste note, ha seguito da vicino quella fase affascinante e travagliata delle corse – fra lampi di gioia e il buio di tragedie ripetute -non può avere dubbi sulle qualità tecnico-agonistiche (oltre che umane) di Renzo, campione a tutto tondo, umile, pacato, dal sorriso mite e ironico, rispettoso fuori dalle piste quanto irruento e indomabile in corsa. Dopo l’apprendistato positivo con l’Aermacchi monocilindrica di 250 e 350 cc è con la Benelli che Renzo – chiamato a sostituire a fine 1966 l’infortunato fuoriclasse Tarquinio Provini – diventa il “Paso”, con i due occhioni stampigliati sul casco, piegando Agostini e la MV Agusta addirittura nella massima cilindrata e al debutto nella chiusura tricolore di Vallelunga con la inedita 500 4 cilindri pesarese e concedendo poi il bis nella successiva rivincita di Modena, prima tricolore internazionale del 1967.

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Da lì, appunto, le indimenticabili sfide AgoPaso diventano epopea, infiammando e dividendo le tifoserie che affollano ovunque i circuiti. I titoli iridati contano e pesano, ma in questo caso, se da una parte dimostrano la statura di un fuoriclasse come Agostini, dall’altra non collocano Pasolini dove dovrebbe stare, cioè nell’olimpo dei grandissimi di questo sport, anche statisticamente, nell’albo d’oro.

Ma va bene così, lo stesso. Pasolini, pilota e uomo indimenticabile, resta vivo nel cuore degli sportivi perché – come pochi altri super – ha fatto la storia di questo sport. Voleva vincere il mondiale (sarà “solo” secondo con la Benelli nel mondiale 350 del 1968, ancora vice iridato della 250 con l’HD nel 1972 e ne mancherà altri solo per sfortuna) e non mollava. Poi Monza. E adesso con il suo busto a Rimini, a due passi
dall’abitazione paterna, Renzo può di nuovo aspettare gli amici di sempre che, con una bottiglia di Sangiovese in mano, s’apprestano, rumorosamente, a festeggiarlo. C’è sempre un’altra sigaretta da accendere. Quel 20 maggio 1973 è stato solo uno “scherzo” beffardo della Signora in nero.

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