MotoGP, capitano e “delfino” o due “galli” nello stesso pollaio? Ago “rookie”…
Cambiano i tempi ma sostanzialmente la struttura interna alle squadre e la “filosofia” restano le stesse...
Si avvicendano in questi giorni a cavallo fra la fine di gennaio e i primi di febbraio le presentazioni dei Team (piloti e moto) perché manca poco all’avvio dei test ufficiali e del primo round della MotoGP 2019. L’interesse, a dire il vero, non è incentrato sulle caratteristiche tecniche delle nuove moto ma ruota soprattutto sui piloti, in particolare sulla questione sempre aperta se un Team è più forte con un “capitano” e un “gregario” o (“delfino”) o con due “galli” nello stesso pollaio.
Il riferimento – ovvio – va soprattutto alla nuova squadra ufficiale MotoGP Honda-HRC composta da due “number one”: Marc Marquez e Jorge Lorenzo. In questo caso, pur non essendoci fra i due la stessa base di partenza (Marc è da sempre pilota vincente Honda campione del Mondo in carica, lanciatissimo e candidato numero uno alla vittoria finale 2019; Jorge è appena arrivato in HRC dopo l’altalenante biennio in Ducati), non ci sono ordini di scuderia a favore dell’uno o dell’altro ed entrambi partono con le stesse chance tecnico-agonistiche.
Idem – più o meno – in casa Yamaha con Rossi e Vinales, pur con la differenza di pedigree (a favore di Valentino) e di età (a favore di Maverick), liberi di giocare ognuno le proprie carte. Diversa la situazione in Ducati, con Dovizioso capitano d’ufficio e Petrucci “gregario” di lusso, dove spetta soprattutto al forlivese l’onore e l’onere della lotta per il titolo.
In altre squadre ci sono i cosiddetti “rookie” o i giovani “rampanti”, quelli che una volta venivano definiti “delfini”, cioè candidati in un Team a prendere il posto di “number one”. Tutto questo vale all’inizio del campionato ma, sapendo quanto il motociclismo è mutevole anche per i suoi rischi capaci di scombussolare le carte e i pronostici, non è detto che le basi di partenza non possano cambiare. Cambiano i tempi ma sostanzialmente la struttura interna alle squadre e la “filosofia” restano le stesse.
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Ad esempio, da sempre, esiste la figura del “delfino”, cioè il pilota potenzialmente con le doti del campione ma non ancora maturo per cui, in attesa che la crisalide si trasformi in farfalla, lo si fa correre come “seconda guida” sotto l’ala protettrice del capo squadra o lo si “parcheggia” in un Team “amico”.
A volte, quando negli anni ’50-’60 dominavano le grandi Case italiane, inglesi, tedesche, il corridore-allievo messo sotto contratto veniva tenuto … a bagnomaria, usato solo nei test, ma privato dell’onere e dell’onore di gareggiare nelle competizioni titolate. Quando invece il nuovo arrivato poteva correre, di solito riceveva tassativamente l’ordine di limitarsi a fare la “seconda guida”, di fatto il gregario, senza permettersi di intralciare il capitano della squadra.
D’altronde le non poche eccezioni di questo schema confermano tale regole in epoche passate ma anche recenti. Un classico esempio di “delfino” diventato poi “capitano” (e che capitano!) viene dal 15 volte campione del Mondo Giacomo Agostini. Dopo l’esordio nel 1964 fra i big con la 250 Morini (trionfa nel tricolore ma mette in bisaccia solo due quarti posti nel motomondiale alla Solitude e a Monza), l’asso di Lovere, 23enne, viene chiamato per la stagione 1965 alla corte di Cascina Costa, dove con le grosse 4 cilindri MV Agusta 350 e 500 era appena passata gente dal calibro di John Surtees e Gary Hocking e dove il capitano rispondeva al nome di Mike Hailwood.
Chi scrive queste note era presente il 19 marzo 1965 quando Agostini nell’ouverture tricolore all’autodromo di Modena porta in gara per la prima volta la mezzo litro di Cascina Costa. In una giornata plumbea e davanti a una manciata di spettatori il poulain della Casa varesina vince con facilità – davanti a Mandolini sulla vetusta Guzzi mono – pur con il brivido di una caduta all’ultimo giro, senza conseguenze.
Dopo questa prima uscita all’ombra della Ghirlandina senza infamia né lode, il circuito Perla Verde di Riccione mette in scena per la prima volta il piatto prelibato del primo confronto fra il rookie bergamasco e l’asso consacrato Hailwood, già quattro volte iridato. Ricordo ancora come l’inglese snobbasse l’italiano non riservandogli neppure uno sguardo sin dalle prove ufficiali del sabato. In una giornata tersa battuta dalla bora gelata, quel 29 marzo 1965 Mike fece la “brutta” conoscenza di Mino, subito sul gradino più alto del podio.
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E’ il primo match (finirà 42 a 30 a favore di Mike) e il puledrino “acqua e sapone” della Scuderia Agusta batte inaspettatamente il mitico fuoriclasse inglese. E’ l’apoteosi. Divampano le polemiche. Nasce il mito di Ago. Ma il 25 aprile, sul ben più impegnativo saliscendi di Imola la situazione si ristabilisce. Davanti a 80 mila spettatori, Agostini fila via in testa di una 500 attesissima, con alle spalle Grassetti (Bianchi) e Hailwood (MV Agusta). A metà gara il bergamasco viaggia davanti con un forte vantaggio, fino alle prime gocce di pioggia, quando l’inglese lancia il contrattacco, guidando sul bagnato come fosse asciutto, riagguantando l’italiano per staccarlo a sua volta negli ultimi tre giri. Una dura lezione del vecchio leone al giovane ghepardo.
Pochi giorni dopo inizia il mondiale e Agostini, pilota straordinario e di grande intelligenza, capisce che è meglio fare una stagione di apprendistato dietro l’illustre maestro. Solo grazie all’assenza del suo caposquadra, Ago vincerà ad Imatra il suo primo Gran Premio delle 500, cogliendo anche la sua prima doppietta iridata, e solo grazie alla nuova filante 350 tre cilindri realizzata dalla MV su misura per lui, festeggerà la vittoria al Nurburgring piegando le velleità di Jim Redman su Honda.
Poi due cadute in Germania Est e in Cecoslovacchia indurranno l’irriverente ragazzo bergamasco a dosare meglio l’acceleratore. Ma è la 500 il vero terreno di scontro. E nella corsa più dura e blasonata, al Tourist Trophy dell’Isola di Man, arriva l’occasione per il colpaccio. A metà gara, in una giornata del diavolo (acqua, grandine, nevischio e nebbia), Hailwood al comando della gara incappa in una spettacolare caduta sui 200 all’ora. Evita miracolosamente alberi, pali e muretti e dopo una lunga strisciata sull’asfalto finisce fra il pubblico assiepato ai bordi del micidiale tracciato. Mike, disteso sull’asfalto sotto la pioggia battente, è stordito, ha la tuta a brandelli, il rosso del sangue marca il nero del cuoio. E’ malconcio.
La notizia che Agostini ha nel frattempo guadagnato la testa della corsa lo spinge come una molla a rimettersi in piedi e a sollevare la moto (la MV 500 4 superava i 200 kg!) per tentare di ripartire. Il motore è fumante e la moto gronda olio e benzina. Il plexiglass della carenatura è a pezzi. Quel che resta viene eliminato con un paio di pugni. A calci il pilota raddrizza il manubrio ed elimina la leva del freno posteriore, penzolante.
Così scrivevamo in un precedente Amarcord: Mike sale in sella, lo spingono in discesa ma il motore recalcitra. Poi finalmente l’urlo rabbioso della “quattro”, anche se la plurifrazionata italiana “perde” un cilindro e viaggia, per i primi chilometri, a “tre”. Alla fine della corsa mancano tre giri (al Classic TT un giro corrispondeva a Km 60,270 !) e Mike si getta a capofitto nei dislivelli del Mountain. Una danza infernale, una mirabile pittura. Quando si dice l’arte di correre in motocicletta! Hailwood lima i muretti in mezzo ai paesi, si arrampica (fino a 750 metri di altezza) nei tornanti in salita fra il nevischio; allo Snaefell una folata gelida dei venti del nord lo ributta quasi a terra; torna a saltare sulla schiena del Ballaugh (sui 220 Kmh); poi giù al “Governor’s Bridge”; infine a 249 kmh piomba sul dritto di Douglas.
Un altro giro così ed è record sul bagnato: 166,500 kmh! I meccanici della MV sono allibiti. Il pubblico è tutto in strada ad agitare ombrelli, fazzoletti e bandiere, a stappare bottiglie. Uno dopo l’altro Mike agguanta i fuggitivi. Un recupero su Agostini in testa, di quasi … 5 minuti! E’ l’ultimo giro. Agostini è nel mirino, ancora pochi secondi ed è il sorpasso. Ma la quattro cilindri dell’italiano s’ammutolisce e l’inglese vola verso il trionfo e verso il suo quinto titolo iridato. Tagliato il traguardo, Mike sviene fra le braccia dei meccanici. Ed è Agostini il primo a congratularsi con il trionfatore. Hailwood è sempre il re della massima cilindrata. Ma Agostini ha imparato l’arte, mettendo gli artigli e guadagnandosi i galloni di capitano. Alla fine della stagione l’inglese divorzierà dalla MV Agusta passando alla Honda con un assegno di oltre 30 milioni. Inizia l’era di Ago. Quante affinità con il motociclismo odierno?
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