SBK, anche Cortese a piedi. Senza “valigia” non si corre?
Il pilota trentenne Sandro Cortese non ha ancora una sella per il Mondiale SBK 2020, di fatto è a piedi dopo aver disputato nel 2019 il WSBK nel Team GRT assieme a Marco Melandri
Il pilota trentenne Sandro Cortese, bavarese perché nato a Ochsenhausen ma da genitori italiani calabresi di Cirò emigrati in Germania, non ha ancora una sella per il Mondiale SBK 2020, di fatto è a piedi. E allora, si dirà, specie da chi, fuori dallo zoccolo duro degli aficionados, non sa neppure chi è Franco Cortese? Franco ha disputato nel 2019 il WSBK nel Team GRT assieme al compagno di squadra Marco Melandri (finito al 9° posto finale) con la Yamaha YZF-R1 giungendo alla fine solo 12esimo in classifica, quinto nel cosiddetto Trofeo Indipendenti. Il pilota tedesco era arrivato in Sbk dopo aver vinto nel 2018 il mondiale Supersport (Yamaha YZF-R6 del Team Kallio) e dopo aver conquistato il titolo iridato Moto3 2012 con cinque vittorie, cinque secondi posti, cinque terzi posti. Così Cortese è diventato il terzo pilota nella storia, dopo John Kocinski e Max Biaggi, a far suo un titolo mondiale sia con le moto derivate dalla serie, se pur la Supersport e non la più prestigiosa Sbk che con i prototipi del Motomondiale, se pur nella categoria di ingresso, la Moto3 250. Insomma, non proprio un signor nessuno Sandro Cortese, che adesso a 30 anni, fallita la trattativa con Ten Kate senza soldi per schierare una seconda Yamaha R1 insieme a Loris Baz, si trova pur con due corone iridate sul capo, nella non felice posizione di dover di nuovo tornare – se va bene – nella Supersport o tentare l’avventura nell’Endurance (Yamaha Yart?), cioè proseguendo la carriera agonistica col passo del gambero. Diciamocela tutta, a meno di un improbabile miracolo, i sogni di gloria per Cortese finiscono qui, e se va bene, in pista può solo aspirare a un ruolo di comprimario, se pur blasonato.
Cortese non è l’unico nel WSBK che inizia la nuova stagione fra poco più di due mesi (28 febbraio 2020) con il GP d’Australia a Phillip Island, ad essere senza sella o in grande difficoltà. E’ la dimostrazione, al di là della panna montata, di quante precarie siano le basi su cui poggia oramai il mondiale delle derivate di serie e su cui regge anche lo stesso Motomondiale che senza la MotoGP catalizzatrice e volano dello show-business sarebbe costretto a spegnere molte delle sue abbaglianti luminarie. Dai campionati minori su su fino ai mondiali, le griglie di partenza si formano per lo più grazie ai piloti con la valigia – con le eccezioni che confermano la regola – pur in un iceberg di pochi Paperoni da far girar la testa per il business che muove. Tradotto significa che i piloti super pagati e in sella a super moto ufficiali nei super Team delle grandi Case sostenute da grandi Sponsor e dalla torta Dorna (grazie ai diritti tv) si contano complessivamente sulle dita delle due mani. Altrettanti corrono “alla pari”, cioè non pagano niente ma non ricevano compensi direttamente dai loro Team. Tutti gli altri, diciamo ben oltre i due terzi, mettono mano al portafoglio (personale o dei genitori e amici ecc.) per poter scendere in pista nei campionati nazionali o in quelli internazionali e mondiali. La scalata verso il successo è dura e come cantava Gianni Morandi: “Uno su mille ce la fa”. E’ sempre stato così? Più o meno sì. Cambiano le proporzioni e le quantità dei soldi necessari per tentare quella che era e resta una avventura esaltante quanto non priva di rischi per se stessi e per l’economia personale e delle famiglie coinvolte. D’altra parte le corse costano (molto) e correre non è una attività obbligatoria, così come i Team sono aziende in tutto e per tutto e come tali devono far quadrare i conti, altrimenti chiudono bottega. Motociclismo come una azienda o come una zona piena di aziende particolari in mezzo a una jungla? Più o meno. E anche piena di belve feroci, trabocchetti e terreni minati. Provare per credere.